Non si sa mai bene dove voglia andare a parare, Teresa Ciabatti. Né come. Ed è proprio questo il bello. Ti aspetti un racconto su un super boss della Camorra e finisci a parlare di UFO, colombi e pesca subacquea. Ti immagini un’intervista, e ti ritrovi in mezzo a una confessione collettiva – dove lei per prima si espone, inciampa, si corregge, cambia rotta. È successo anche durante l’incontro organizzato da Fastbook in diretta su Facebook (e poi a porte chiuse con i librai), in cui Ciabatti ha presentato il suo nuovo romanzo, Donnaregina, pubblicato da Mondadori. Un libro nato da un’intervista a Giuseppe Misso, uno che tutti definiscono un super boss della Camorra, tranne lui.

Un incontro tra due mondi
Tutto comincia con un suggerimento di Roberto Saviano: “Vai, con te si apriranno. Per loro sei innocua come una casalinga.” E lei va. Senza sapere nulla di Camorra, saltando ogni codice, ogni reverenza. Si presenta a Giuseppe Misso come farebbe con un cantante o un attore, e da lì inizia una strana alleanza, un dialogo tra mondi che non avrebbero dovuto nemmeno sfiorarsi.
Misso, figura storica della criminalità napoletana, rifiuta tutte le etichette: non si definisce camorrista, né pentito. Preferisce, pensando alle sue rapine, definirsi “prelevatore”, e “chiarificatore” piuttosto che “pentito”. Eppure accetta di raccontarsi a una donna che arriva da un altro pianeta, priva di paura, senza giudizio, senza fascinazione.
Il romanzo come atto di fiducia
“Ha firmato la liberatoria senza leggere il libro,” racconta Teresa, “e mi ha detto: so che uscirò male, ma mi fido. Ho letto La più amata.” Da questo atto di fiducia nasce un romanzo che è molto più di un ritratto: è uno sguardo originale (e spiazzante) sul male, sull’ambiguità, sull’umanità che resiste anche dove meno ce l’aspettiamo.
Nel libro, la voce narrante è una scrittrice che somiglia a Teresa, ma non è “proprio” lei. Come lei è distratta, scostante, approssimativa. E mentre Misso racconta sparatorie, guerre interne, fughe in Brasile, lei si perde nei dettagli: i colombi, le notti a Ischia, gli UFO. Scarti, direbbe qualcuno. Ma per Ciabatti quei frammenti dicono molto di più: raccontano un uomo, non un ruolo. Raccontano una solitudine, un senso di ingiustizia, una forma stramba ma sincera di amore.
Scrivere senza giudicare
La scrittrice protagonista di Donnaregina non è mai stata a Napoli prima di iniziare questo progetto. Lo dice apertamente: non conosce la città, non parla il dialetto, non si lascia conquistare dai panorami. Non cerca di farsi accettare, non pretende di capire tutto. Le interessano le persone. E quando, per scrivere, “scende” finalmente a Napoli, lo fa con la consapevolezza di essere un’estranea. Anzi, un’abusiva.
All’inizio si documenta: romanzi, articoli, saggi. Ma presto capisce che non è quella la strada. La chiave sta proprio nel dichiarare il proprio sguardo spostato, nella distanza, nella goffaggine. In un certo senso, nella mancanza di rispetto – che, paradossalmente, diventa uno spazio di libertà narrativa. È da lì che scrive.
“Il libro non vuole essere una celebrazione. Non vuole dire che Misso è Robin Hood. Ma prova a raccontare quanto il male ci è vicino. Quanto non è una categoria lontana, rassicurante. È umano, è contaminato, è anche nostro.”

Una scrittura che sposta l’asse
Come sempre, Teresa Ciabatti scrive scardinando le aspettative. Donnaregina non è un libro sulla Camorra. È un libro sul racconto della Camorra, sullo sguardo che decidiamo di avere quando guardiamo il crimine, la violenza, chi li incarna. È un libro sul giudizio, sull’ironia, sull’equivoco. E anche su una certa libertà, che Teresa si prende e rivendica a ogni pagina: quella di non dover piacere, di non dover spiegare tutto, di non dover restituire la realtà com’è – ma com’è nel suo sguardo.
Alla fine, l’intervista si chiude, ma il dialogo resta aperto. Anche per noi lettori. Perché se c’è una cosa che Donnaregina fa davvero, è costringerci a uscire dal nostro comodo recinto.